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Consecuencias
 
Abril 2008 | #1 | Índice
 
Derrida e Lacan: un incontro mancato? [1]
Domenico Consenza
 
1. Derrida/Lacan: un ‘eccesso di vicinanza’
 

Un impasse continua a permanere, a mio avviso, al cuore del rapporto tra Derrida e Lacan. Qualcosa di opaco, che ha caratterizzato il rapporto tra il pensiero del primo e l’insegnamento del secondo, nel segno di una sostanziale incomprensione reciproca, finché erano in vita. Opacità che permane in giacenza, non ancora veramente esplorata ed interrogata, ora che entrambi sono morti. Questo silenzio, che ancora permanein giacenza giungendo fino a noi, ha la struttura paradossale della lettera rubata, terreno attorno al quale la querelle tra il padre della decostruzione ed il fautore del ritorno a Freud in psicoanalisi si è avviata. Noi ne siamo oggi i destinatari e gli eredi, a condizione di volerci cimentare nel compito impossibile di riceverlo, questo silenzio, e di ascoltarlo, andando incontro agli effetti esproprianti e femminizzanti, di detotalizzazione, che strutturalmente comporta.

Non ritengo che il cuore del problema si situi a un livello meramente storiografico, né dunque che si risolva nel quadro di un capitolo ancora da scriversi interno alla storia dello strutturalismo francese nella sua fase di crisi interna e di decomposizione post-strutturalista. Una tale operazione, che certo può essere utile supporto nel quadro di una storia del pensiero occidentale delle ultime decadi del ‘900, non scalfisce il punto di maggiore inerzia che sta alla base del problema. Come mai due autori per molti aspetti così prossimi non abbiano potuto intendersi, entrambi dal proprio differente campo ai confini tra psicoanalisi e filosofia, entrambi lettori ispirati dalla triade Freud-Heidegger-Joyce, entrambi alle prese con un lavoro di messa in questione radicale della tradizione, è una questione aperta. Nel suo omaggio nel convegno "Lacan avec les philosophes", Derrida suggerisce in un punto una chiave di lettura che radicalizza la questione, sottolineando il peso che l’’eccesso di vicinanza’ ha esercitato nella sua lettura di Lacan. Per il padre della decostruzione infatti, "il discorso più prossimo", "…il discorso più vicino e il più decostruibile[…]era senza dubbio quello di Lacan"[2]. Il discorso di Lacan gli era così vicino, che non poteva non leggerlo. Al contempo tuttavia, e più radicalmente, tale principio dell’eccesso di vicinanza nella lettura può essere tradotto più precisamente, se si tiene conto di come effettivamente la lettura derridiana di Lacan e la sbrigativa replica di Lacan su Derrida si sono snodate, in questi termini: troppo vicino per poter essere letto. La mia tesi è che il principio esegetico dell’eccesso di vicinanza, nel rapporto Lacan/Derrida, vada inteso proprio nella logica strutturale della lettera rubata: proprio perché troppo vicina, non riesce ad essere vista né tantomeno letta. Al contempo, è l’esperienza analitica stessa a mostrarci nell’eccesso di vicinanza una condizione che mette l’analista stesso in condizioni di maggiore vulnerabilità rispetto agli effetti di cattura immaginaria e di specularizzazione nella relazione di transfert. Propongo in primis di leggere la querelle Derrida/Lacan come un caso che insegna sugli effetti occlusivi che l’’eccesso di vicinanza’ produce nella lettura.

Su questa base possiamo per ora indicare la difficoltà di Derrida, soprattutto in Le facteur de la verité, ad ‘essere giusto con Lacan’ – per usare la formula che lo stesso Derrida impiega per Foucault rispetto all’’essere giusto con Freud’ -, e viceversa la difficoltà di Lacan a riconoscere il valore proprio del discorso di Derrida. Ritornando recentemente sulla querelle nelle sue "Note passo passo" al Seminario. Libro XXIII Il sintomo, Jacques-Alain Miller ricompone diplomaticamente la questione che ha contrapposto il suo antico maestro di filosofia e Lacan in questi termini:

Lacan e Derrida, ciascuno dei due è grande nel suo genere, si tratta solamente di sapere qual è.[3]

Non è tuttavia un’indicazione solo diplomatica questa offerta da Miller, nonostante il suo imbarazzo tra i due maestri. Può essere presa infatti come una tesi che orienta, che non chiude ma apre. Ci indica infatti una via per uscire dall’impasse sterile del mancato riconoscimento e del reciproco misconoscimento tra Derrida e Lacan. Una via simbolica per uscire dall’impasse immaginario tra Lacan e Derrida, tra lacaniani e derridiani. E’ importante tuttavia attraversare succintamente la storia di tale fraintendimento, per cercare di uscirne.

 

 
2. Lacan nella metafisica e oblio del reale: intenzionalità e punto cieco in "Le facteur de la verité"
 

In effetti, c’è qualcosa di paradossale nel rapporto tra Derrida e Lacan che dà luogo ad una sorta di cecità reciproca. Da un lato infatti, Derrida non riconoscerà in Lacan, se non tempo dopo la morte di quest’ultimo, la riformulazione dell’insegnamentodi Freud più prossima alla logica della decostruzione. Al contempo Lacan non riconoscerà al discorso di Derrida il suo situarsi il più vicino possibile, nel dibattito filosofico contemporaneo e nei limiti strutturali che tale discorso consente, alle istanze radicali e inaudite della pratica freudiana messe allo scoperto dalla lettura lacaniana stessa. Lacan non riconoscerà in Derrida un "amico della psicoanalisi", come lui stesso giungerà a definirsi, nell’accezione meditata che egli dà del termine ‘amicizia’.

Come noto, il testo a partire dal quale si sviluppa il problema del rapporto Derrida/Lacan è costituito dalla lettura che Derrida opera, in Le facteur de la verité del ’75, dello scritto che apre la raccolta degli Ecrits di Lacan, "La lettera rubata", in cui Lacan legge un celebre racconto di Edgar Allan Poe esponendo in questo scenario narrativo i principi della propria logica del significante in psicoanalisi. In un altro contesto ho già analizzato nel dettaglio gli elementi della critica derridiana a Lacan presenti in questo testo, indicando al contempo nel testo stesso di Lacan i punti ciechi che Derrida non vede nella sua lettura[4]. I capi d’imputazione che Derrida individua nella sua lettura sono noti: il pensiero di Lacan lì espresso prende la forma per Derrida di un "sistema della verità e della parola" dominato dal fonologocentrismo, dalla metafisica dell’autenticità, dall’idealismo del significante come atomo indistruttibile, dal trascendentalismo fallocentrico come condizione di funzionamento della logica significante, per non citare che le critiche fondamentali. In altri termini, il discorso di Lacan rientrerebbe essenzialmente, senza che lui se ne renda conto, nel quadro della tradizione metafisica che Derrida, nella sua ripresa originale del progetto di distruzione fenoenologica dell’ontologia aperto da Heidegger in Sein und Zeit, lavora a decostruire, mettendola allo scoperto.

Ciò che mi colpì subito in questo testo di Derrida fu la presenza di un ‘doppio movimento’ nella sua lettura volto a produrre un duplice effetto: mettere in piena luce tutti i punti del discorso di Lacan riconducibili per lui nell’alveo della metafisica della presenza, oscurando tutti i punti presenti nel testo stesso che non rendono possibile questa operazione, e che se evidenziati metterebbero così in questione la strategia stessa della lettura derridiana. Ciò colpisce in misura particolare in un autore come Derrida, solitamente sottilissimo nel mettere in evidenza nel testo che legge le tensioni interne ed i punti di opacità che resistono strutturalmente ad una totalizzazione ermeneutica. Le critiche alla lettura di Derrida non sono certo mancate da parte lacaniana. Scremando quelle dettate da un intento ideologico, mi limito a mettere in evidenza due livelli di contestazione critica della lettura derridiana che saltano all’occhio. Il primo livello riguarda la congiuntura storica della lettura derridiana, di cui il filosofo sorprendentemente non tiene conto nella sua decostruzione del Seminario su La lettera rubata di Lacan. Nel ’75 sviluppa la sua critica a Lacan attorno ad un testo del ’56, senza tener conto del fatto che l’insegnamento dello psicoanalista in un ventennio si era radicalmente trasformato giungendo agli esiti radicali, ed ancor oggi da decifrare, del Seminario XXIII Le sinthome, tenutosi proprio nel ’75-76. Era infatti già dall’inizio degli Anni ’60 che Lacan stesso aveva messo in questione alcune tesi controverse del suo insegnamento strutturalista degli Anni ’50, quali il primato del simbolico e l’autonomia del significante, la centralità attribuita al significante fallico e al Nome-del-Padre; e ciò nello stesso tempo in cui la sua ricerca convergeva attorno al registro del reale ed alla nozione di godimento, di lettera e di scrittura come dimensioni nelle quali il significante non funziona tanto alla radice come operatore di significazione e produttore di effetto di verità, ma come veicolo di godimento fuori-senso. E’ questo il passaggio compiuto da Lacan dalla lingua della linguistica a lalangue, ed incarnato in modo paradigmatico dal caso di Joyce[5], la cui scrittura incarna l’essenza della lettera come godimento e scarto rispetto al senso[6].

Dunque la lettura di Derrida si presenta quantomeno con le caratteristiche di una lettura certo geniale e foriera di effetti, ma datata e priva di rigore storico-concettuale. In questo senso Jacques-Alain Miller parla di "cantonata" , e fa notare al riguardo che lo scritto di Lacan "Lituraterre" era stato pubblicato poco prima de Le facteur de la verité, e sarebbe bastato leggerlo e tenerne conto per cambiare prospettiva di lettura.Più precisamente fa inoltre notare inoltre che, in questa stessa prospettiva, quella che ritiene essere l’"obiezione centrale" di Derrida a Lacan, ossia la sua tesi dell’intangibilità ed indistruttibilità della lettera, che fa sì che la lettera giunga sempre a destinazione, già all’interno degli Scritti di Lacan trova una chiara confutazione, in particolare in "Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio" del ’58; qui emerge infatti chiaramente, nella ripresa dell’atto di Madeleine di bruciare le lettere ricevute da André, una messa in evidenza dello statuto di materialità della lettera in Lacan[7].

Feci notare nel mio articolo di dieci anni fa come nel testo stesso del Seminario su La lettera rubata vi sono almeno tre punti che Derrida non coglie, nei quali fa capolino la dimensione del reale come irriducibile ai quadri della metafisica della presenza, del primato del simbolico e della logica fallo-fono-logocentrica[8]. In primis un riferimento chiaro a Joyce attraverso il suo "a letter, e litter, una lettera una ordura"[9]. E’ la prima comparsa di Joyce e di questa omofonia joyciana, che avrà un peso decisivo nell’insegnamento avanzato di Lacan, fino ad assurgere a vero e proprio principio del suo ultimo insegnamento: "la lettera è scarto", come è detto nella conferenza del ’75 "Joyce il sintomo". Proprio qui, nel Seminario su La lettera rubata, il testo incriminato da Derrida per aver edificato un sistema della verità e della parola attorno ad una dottrina dell’idealità della lettera, troviamo già depositato il meteorite joyciano, in attesa di esplodere nell’insegnamento di Lacan.

In secondo luogo, nella "Presentazione della suite", Lacan avanza un’affermazione che marca lo statuto limitato del simbolico, laddove afferma che "…non basta quell’ordine costituente che è il simbolico per far fronte a tutto"[10].

Infine, in un punto della "Parentesi della parentesi", aggiunto al Seminario su La lettera rubata nel ’66, Lacan smarca lo statuto dell’Es dall’inconscio strutturato come un linguaggio, sottolineando che il primo si presenta rispetto al secondo come "logicamente disgiunto e soggettivamente silenzioso", rinviando al "silenzio delle pulsioni"[11].

 

 
3. Lacan su Derrida:scrittura del nodo e scrittura della precipitazione significante
 

I riferimenti di Lacan a Derrida nel corso del suo insegnamento sono estremamente rari. Possiamo isolare almeno due punti nell’arco del Seminario. Il primo riferimento è ampiamente precedente l’uscita de Le facteur de la verité, e lo troviamo nel seminario XVIII D’un discours qui ne serait pas du semblant ( lezione del 10 marzo ’71). Qui Lacan opera un’allusione inequivocabile al pensiero di Derrida, pur non indicando esplicitamente il suo nome. Il secondo riferimento, stavolta esplicito, lo reperiamo nel seminario XXIII Il sinthomo, nell’ultima lezione dell’11 maggio ’76, dunque un po’ dopo la pubblicazione del classico testo derridiano su Lacan.Tuttavia non troviamo qui alcuna traccia che ci faccia pensare ad una lettura e ad una presa di posizione di Lacan rispetto alla critica rivoltagli da Derrida. In questo senso, se il destinatario de Le facteur de la verité fosse stato per Derrida Lacan stesso, bisogna dire che l’opera non è arrivata a destinazione, quantomeno nel senso di non aver suscitato una replica mirata. Erano però già edite da tempo le opere più classiche del pensiero di Derrida, tra cui la raccolta di saggi La scrittura e la differenza (1967), ove è incluso il celebre "Freud e la scena della scrittura", che offre in nuce il cuore della lettura derridiana della psicoanalisi.

Tuttavia è già presente nel riferimento di Lacan del Seminario XVIII l’elemento della replica ad un’accusa. Accusa che ruota attorno allo statuto della "parola piena", come è noto presente nell’avvio dell’insegnamento di Lacan in psicoanalisi, in particolare in "Funzione e campo della parola e del linguaggio", ma anche per esempio in "La Cosa freudiana". Parola piena, parola ispirata, che nella prospettiva derridiana riconducono nell’alveo del fonologocentrismo della metafisica della presenza, e di cui occorre operare una desedimentazione decostruttiva che permetta l’emergenza differita di una scrittura costituente ancorché impossibile (poiché non può darsi nella forma della semplice presenza), traccia di una non origine all’origine, di un supplemento all’origine, ciò che Derrida nomina come ‘archiscrittura’. La replica di Lacan è sbrigativa e articolata su tre punti: 1) distinguere il campo della filosofia dal campo analitico, mostrando come si radichino in due discorsi diversi, il primo nel discorso universitario ed il secondo nel discorso analitico; è evidente l’allusione di Lacan secondo cui l’elaborazione di Derrida si muova all’interno della logica del discorso universitario, irriducibile alla logica del discorso analitico; 2) rimarcare la sterilità dell’operazione derridiana volta a ricondurre la cosiddetta parola ispirata e piena nell’alveo del logocentrismo, e ad aprire ad una mitica archiscrittura come punto cieco di tutto ciò che si è pensato sulla scrittura; 3) smarcare il proprio uso della nozione di ‘parola piena’ dalla formulazione logocentrica che ne ha tratto Derrida, mettendo in evidenza due aspetti essenziali di essa: a) la parola piena riempie, e più precisamente "…riempie la funzione dell’achose", e dunque il suo statuto non è affatto originario maè subordinato alla funzione dell’oggetto (a) come presentificazione impossibile del mitico oggetto del primo soddisfacimento; b) "…la parola supera sempre il parlante, il parlante è un parlato, ecco qui ciò che io enuncio da tempo"[12] .

Di ben altro tono appare ciò che Lacan dice su Derrida nel seminario XXIII. Qui infatti, più che difendersi dalla critica derridiana, avanza affermativamente nella direzione di un al di là della posizione del maestro della decostruzione. Il punto-chiave riguarda il problema della scrittura, e proprio attorno a questo Lacan reinterpella Derrida, ma stavolta a partire da ciò che considera il punto terminale più solido del proprio insegnamento: la struttura del nodo borromeo.

Prima di tutto dunque, Lacan avanza la tesi del nodo borromeo come scrittura. L’esperienza del nodo s’incarna infatti in una pratica di scrittura ai limiti della deimmeginarizzazione e irriducibile alla strategia logocentrica di duplicazione della parola. Al contrario, il nodo non può prodursi senza scriverlo, è esso stesso una scrittura, un fare che è a sostegno del pensiero:

Questo nodo è un sostegno per il pensiero ma, cosa curiosa, per tirarne fuori qualcosa bisogna scriverlo, mentre se ci si limita a pensarlo non è per nulla facile rappresentarselo, nemmeno quello più semplice, e vederlo funzionare. Questo nodo, questo nodo bo, comporta la necessità di scriverlo per vedere in che modo funziona.[13]

In secondo luogo, Lacan distingue la propria posizione da quella di Derrida, nei termini di due modalità diverse di scrittura: la propria scrittura del nodo borromeo da un lato, e la "scrittura come precipitazione significante"per quanto riguarda Derrida. E’ uno spostamento rilevante rispetto al Seminario XVIII: lì la differenza veniva tracciata da Lacan nei termini di un’appartenenza a due discorsi diversi, quello universitario e quello analitico; qui viene rimarcata a partire dal problema della scrittura. E’ interessante anche vedere come Lacan qui articola tale differenza tra la scrittura del nodo e la scrittura come precipitazione significante. Lacan qui sembra leggere la posizione di Derrida sulla scrittura non più nei termini di una elaborazione speculativa sterile effetto della logica del discorso universitario, ma ben diversamente come l’espressione di una posizione appartenuta a Lacan stesso, e di cui il filosofo non riconoscerebbe il debito. Dunque è dalla prospettiva di un avanzamento prodottosi all’interno alla propria ricerca, che Lacan qui guarda alla posizione di Derrida, come ad una posizione che gli è appartenuta e che in parte ha oltrepassato:

Una scrittura è dunque un fare che dà sostegno al pensiero. A dire il vero il nodo bo cambia completamente il senso della scrittura. Dà alla suddetta scrittura una autonomia, tanto più notevole in quanto c’è un’altra scrittura, quella che risulta da quanto potremmo chiamare una precipitazione significante. Derida ha insistito proprio su questo, ma è lampante che gli ho indicato io la via, come indica già sufficientemente il fatto che per dare supporto al significante non ha trovato altro modo che la scrittura S.[14]

Potremmo qui riprendere l’indicazione dataci da Miller di addentrarci nel rapporto tra Derrida e Lacan a partire dalla distinzione dei generi di grandezza rispettivi, legandola a questa indicazione di Lacan sulla scrittura: la distinzione tra la scrittura del nodo borromeo e la scrittura come precipitazione significante. L’area comune della scrittura assumerebbe infatti qui, secondo Lacan, due modalità diverse di esperienza e di pratica della scrittura. Che si possa pensare in questa luce la differenza specifica tra la pratica analitica lacaniana e la pratica della decostruzione?

 

 
4. Tra amore e morte: ritorno di Derrida su Lacan in "Pour l’amour de Lacan"
 

Derrida ritorna a confontarsi in uno scritto su Lacan, diversi anni dopo la morte dello psicoanalista, nel convegno del ’92 "Lacan avec les philosophes" organizzato a Parigi in suo onore dal Collège International de Philosophie. La congiuntura della sua morte avvenuta nell’’81 non è indifferente allo sviluppo del discorso che Derrida qui presenta: morto Lacan infatti, l’amore verso il suo pensiero può trovare il proprio posto esplicito nel testo del filosofo. Derrida infatti, pur non venendo meno alle critiche mossegli in Le facteur de la verité, fa in questa occasione un elogio articolato di Lacan, mettendo in evidenza quei punti nodali che rendono il suo insegnamento imprescindibile per il pensiero contemporaneo. Tale elogio si articola fondamentalmente in tre punti: 1) funzione di Lacan rispetto al pensiero contemporaneo; 2) il modo di Lacan di essere-con i filosofi e di interrogarli; 3) Lacan, psicoanalista filosofo.

Sul primo punto, l’omaggio del filosofo è radicale: niente di nuovo ha potuto prodursi nel pensiero degli ultimi decenni senza rapporto con Lacan:

…niente di ciò che ha potuto trasformare lo spazio del pensiero nel corso degli ultimi decenni sarebbe stato possibile senza qualche chiarimento con Lacan, senza la provocazione lacaniana, quale che sia il modo in cui la si riceva o la si discuta, e aggiungerei senza qualche chiarimento con Lacan nel suo chiarimento con i filosofi.[15]

Possiamo considerarla in fondo un’ammissione implicita del debito che il proprio stesso pensiero ha contratto con l’insegnamento dello psicoanalista francese.

In secondo luogo, Derrida rimarca l’unicità del modo di Lacan di "essere-con i filosofi"[16], di ascoltarli, di interrogarli e di interpretarli. "Ascoltatore formidabile"[17], nella sua lettura dei pensatori di cui il suo insegnamento è costellato, "Lacan ha messo in scena il desiderio singolare del filosofo"[18], il punto di enunciazione del discorso di ciascuno, il punto cieco reso invisibile nel sistema dei suoi enunciati che ne causa la produzione. L’’essere-con i filosofi’ di Lacan fa da pendant in Derrida al proprio definirsi "amico della psicoanalisi"; si tratta, nella logica rivisitata del mit-sein esposta da Heidegger nell’analitica esistenziale di Sein und Zeit, di un rapporto di coessenzialità: niente Lacan senza il suo rapporto con i filosofi, niente Derrida senza il suo rapporto con la psicoanalisi.

Infine, Derrida sottolinea, al di là di Lacan lettore dei filosofi, l’originalità filosofica di Lacan stesso, a suo avviso il più rigoroso in filosofia tra gli psicoanalisti; elogio che non è certo che Lacan avrebbe gradito, anche se è egli stesso a sostenere nel Seminario Il sinthomo di avere tentato, attraverso la topologia del nodo borromeo, di dare vita a quella che per lui si presenta come la prima filosofia sostenibile:

…quel che tento di fare con il mio nodo bo è nientemeno che la prima filosofia che mi sembri poter reggere.[19]

Per Derrida, Lacan è un filosofo molto più avvertito di Freud; e più generalmente

Il raffinamento e la competenza, l’originalità filosofica di Lacan non hanno precedenti nella tradizione della psicoanalisi.[20]

Proprio per tutto questo, Derrida dichiara una propria impossibilità-a-essere rispetto a Lacan:

…io non potevo essere con Lacan come un filosofo sarebbe con uno psicoanalista.[21]

L’eccesso di prossimità, il Lacan troppo filosofo, il Derrida troppo addentro alla questione della psicoanalisi, torna a tracciare lo scenario del rapporto tra i due grandi maestri, stavolta in modo esplicito nell’elogio derridiano a Lacan. E’ in fondo un’interpretazione interna del destino di tale rapporto, quella che Derrida offre. Ad essa faranno seguito nel tempo riconoscimenti più diretti del peso dell’insegnamento di Lacan sul proprio pensiero, quale per esempio la centralità del riferimento alla teoria lacaniana dell’amore come dare ciò che non si ha[22], nella quale il filosofo riconoscerà un ruolo centrale, insieme a quello del suo maestro Levinas, nella tematizzazione sull’etica come dono sviluppata nella parte avanzata della sua ricerca.

 

 
5. Due pratiche dell’impossibile: psicoanalisi e decostruzione
 

Dopo la morte di Derrida, la questione di venire in chiaro rispetto all’oggetto della loro contesa è trasmessa agli eredi del padre della decostruzione, ed agli allievi della psicoanalisi riformulata da Lacan. Sarebbe troppo semplice risolverla come una querelle immaginaria tra due grandi pensatori ormai morti, e che non avrebbe senso rivisitare. In realtà, la mia tesi è che l’oggetto della questione Derrida/Lacan sia tutt’altro che immaginario, non riassorbibile nella dialettica speculare di riconoscimento/misconoscimento. Proprio al contrario, la posta in gioco è la questione dell’ impossibile, a cui sia Lacan che Derrida, via Freud, giungono a partire da sponde diverse. Entrambi lettori radicali di Al di là del principio di piacere, elevano l’enigma freudiano della coazione a ripetere e della pulsione di morte a principio strutturale dell’esperienza, misurandone la portata delle conseguenze sulla tradizione del sapere occidentale e dei suoi assetti disciplinari e discorsivi. Lacan isola il reale del godimento, irriducibile tanto alla dialettica speculare del riconoscimento quanto alla logica del significante, come l’oggetto stesso della cura analitica da isolare attraverso un processo di riduzione e svuotamento progressivo, che va nella direzione di un alleggerimento del soggetto dalle significazioni fantasmatiche che lo hanno segnato per giungere al nucleo di non senso che gli è proprio: al suo modo singolare di godimento. Derrida, dal suo lato, definisce il cuore della decostruzione come una pratica che ruota attorno all’impossibile a dirsi:

…l’impossibile è l’affaire della decostruzione.[23]

Più precisamente, a smarcare la pratica decostruttiva di Derrida dalle derive metodologiche proliferate soprattutto negli Stati Uniti nell’ambito della teoria della letteratura, è essenziale tener conto della precisazione con cui la definisce, ossia come un’esperienza dell’impossibile:

Inutile ricordare ancora una volta che la decostruzione, se ve ne è una, non è una critica, e ancor meno un’operazione teorica o speculativa metodicamente condotta da qualcuno, ma che se ve ne è, essa ha luogo […] come esperienza dell’impossibile.[24]

Riprendendo l’indicazione di Miller, potremmo dire che effettivamente Lacan e Derrida si differenziano tra loro per la modalità di approccio all’impossibile, ma che trovano in quest’ultimo l’oggetto reale, il nucleo dell’eredità di Freud, che li tiene uniti nella discordia. In questa prospettiva, la psicoanalisi lacaniana e la decostruzione derridiana si configurano, prima tesi, come pratiche che ruotano entrambe attorno all’impossibile a dirsi, che puntano al punto cieco della significazione. Il rapporto tra psicoanalisi e decostruzione, tra Lacan e Derrida, non si caratterizza nei termini di un’intersezione vuota. L’’area Lacan/Derrida’ esiste ed è abitata da un oggetto in comune che è l’impossibile a dirsi.

Tuttavia, seconda tesi, abbiamo a che fare con due diverse e irriducibili pratiche dell’impossibile. La pratica lacaniana va nella direzione di una riduzione che punta ad isolare il modo di godimento singolare del soggetto, e mira a configurarsi come un’esperienza che si conclude con l’assunzione, da parte dell’analizzante, del suo punto d’impossibile, Lacan dirà con l’identificazione al proprio sinthomo. Il taglio, la riduzione, l’isolamento, lo svuotamento, l’annodamento, l’incordonatura ne sono le operazioni pratiche, illuminate dalla topologia del nodo borromeo. La pratica derridiana non va nel senso di una riduzione conclusiva, ma mantiene in circolo la spinta infinita a quella che Lacan definiva come "precipitazione significante" senza momento di concludere. In questo senso può apparire ora più chiara la distinzione avanzata da Lacan nel Seminario XXIII tra la sua scrittura del nodo borromeo e la scrittura come "precipitazione significante" di Derrida. Molto del destino esegetico della questione Lacan/Derrida ci sembra debba passare dalla delucidazione di questi due generi differenti di scrittura dell’impossibile.

Un ulteriore punto d’interesse che merita di essere approfondito riguarda l’eredità di cui Lacan e Derrida si fanno portatori. Da un lato è più palese ciò che li accomuna, tra cui, oltre al riferimento cardinale a Freud, l’eredità da cui prendono le distanze di Hegel e Heidegger, oltre che il riferimento siderale a Joyce. Quest’ultimo riveste un posto del tutto speciale nel loro discorso, come qualcuno che parla loro dal futuro.

Importante mi sembra anche illuminare i punti di eterogeneità nella filiazione filosofica. Da un lato è indubbio il debito di Derrida nei confronti di Nietzsche, che non riveste affatto a mio avviso in Lacan una centralità paragonabile. Dall’altro lato v’è indubbiamente un riferimento cardinale nell’insegnamento di Lacan, che ha un ruolo marginale in Derrida: è Spinoza, dal quale Lacan ha indubbiamente appreso il gusto della formalizzazione della struttura dell’esperienza umana in termini di mathema[25]. E se è vero che nella fase più avanzata dell’ultimo insegnamento di Lacan questi lascia la mano di Spinoza (oltre che quella di Freud) per tenderla a Joyce, non è senza fondamenti ipotizzare che la sua scrittura more topologico del nodo borromeo realizzi il desiderio di uno spinozismo sostenibile nell’epoca contemporanea.

 

 
Notas
1-

Intervento al Colloquio italiano « Su Jacques Derrida. Scrittura filosofica e pratica della decostruzione », organizzato dal Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano a Gargnano sul Garda (BS), Palazzo Feltrinelli, il 19-21 aprile 2007.

2- J. Derrida, "Pour l’amour de Lacan » (1992), in J. Derrida, Résistences de la psychanalyse, Galilée, Paris 1996, p. 74, trad. mia.
3- J.-A. Miller, "Note passo passo", in J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 232.
4- D. Cosenza, "La lettera di Freud tra psicoanalisi e decostruzione: Derrida e Lacan", in Fenomenologia e società, n. 2, anno XXII, 1999, pp. 137-143. Il volume raccoglie gli Atti del Convegno Jacques Derrida: dalla fenomenologia all’etica, organizzato dal Seminario permanente di Filosofia contemporanea e dall’Istituto filosofico Aloisianum di Padova il 16-17 gennaio 1999.
5- Vedere al riguardo la lettura del Seminario XXIII operata da Jacques-Alain Miller in Pezzi staccati, Astrolabio, Roma 2006.
6- "E per sottolineare il peso della parola letteratura riporto l’equivoco su cui Joyce gioca spesso – letter, litter. La lettera è scarto"; J. Lacan, "Joyce il sintomo" (1975), "Appendice" de Il Seminario. Libro XXIII. Il sintomo, cit., p. 162.
7- J.-A. Miller, "Note passo passo", cit., p. 231.
8- D. Cosenza, "La lettera di Freud tra psicoanalisi e Decostruzione: Derrida e Lacan", cit., pp. 141-142.
9- J. Lacan, "Seminario su La lettera rubata", in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 22.
10- Ibidem, p. 39.
11- Ibidem, p. 52.
12- J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVIII. D’un discours qui ne serait pas du semblant, cit., p. 78, trad. mia.
13- J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo,cit. p. 140.
14- Ibid.
15- J. Derrida, "Pour l’amour de Lacan", cit., p. 64, trad. mia.
16- Ibidem, p. 65.
17- Ibidem, p. 80.
18- Ibid.
19- J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sintomo, cit., p. 141.
20- J. Derrida, "Pour l’amour de Lacan", cit., p. 65.
21- Ibidem, p. 75.
22- J. Derrida, Ecografia della televisione, Cortina, Milano 1997, p. 23.
23- J. Derrida, "Pour l’amour de Lacan", cit., p. 66.
24- Ibidem, p. 73.
25- Sullo spinozismo sui generis di Lacan mi permetto di rinviare a D. Cosenza, "Spinoza e la clinica matematica degli affetti", La Psicoanalisi, n. 27, gennaio-giugno 2000, pp. 109-121;
 
 
 
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